Incontro 27/9/2025

Rilettura e riflessioni sulla lettera pastorale dell’anno 25-26 – Antonio Villa
(1 incontro alla ripresa delle attività del CPP) 

Alla luce del Documento Finale della XVI Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, il nostro Vescovo Delpini dichiara che la proposta pastorale diocesana per quest’anno non può che essere l’avvio di quei processi di discernimento e di decisione che in quel Documento Papa Francesco richiede. 

Nel documento si afferma che «Dio ha creato il mondo perché noi fossimo insieme» e “Sinodalità” è il nome ecclesiale di questa consapevolezza. È tempo di portare il Sinodo in casa.

Si dirà … ancora Sinodo e sinodalità; anche il Vescovo avverte che certi documenti rischiano di essere un po’ noiosi e il linguaggio di questi documenti può assopire le comunità. Ma il Vescovo si propone di rendere più vivi nella realtà della nostra Comunità questi concetti, che non devono essere astratti per un credente.

La visione di Chiesa che è stata proposta nel documento Chiesa dalle genti, ispira la nostra Chiesa diocesana a quella condivisione del gusto di essere popolo di Dio con tutte le genti per vivere la missione verso tutti. 

Siamo stati battezzati, ma forse questo è un qualcosa che rimane solo come ricordo o fissato in un documento. Invece dobbiamo rinnovare nella nostra vita quella scelta iniziale che è stata fatta dai nostri genitori: avere ricevuto il Battesimo deve essere un segno distintivo nelle nostre vite, ci deve far fare delle scelte, ci dà un mandato a svolgere una missione o, meglio, un servizio nella comunità.

Il Battesimo è il fondamento della vita cristiana perché introduce tutti nel dono più grande: essere figli di Dio, cioè partecipi della relazione di Gesù al Padre nello Spirito.

Non siamo autorizzati a sottovalutare l’opera che Dio sta compiendo, anche se i nostri occhi sono talora miopi e incapaci di vedere: il battesimo è passaggio decisivo e assunzione di responsabilità.

Tutti i battezzati hanno il diritto e la responsabilità di prendere la parola per contribuire all’edificazione della Chiesa, alla conoscenza della verità del Vangelo, all’annuncio della salvezzaa tutte le genti. Ogni battezzato è pietra viva nell’edificazione della Chiesa: è chiamato a contribuire secondo le sue possibilità, in semplicità e carità; è chiamato a consigliare, senza la pretesa di imporre il suo punto di vista; è chiamato a rendersi disponibile per le necessità della comunità, senza lasciarsi trattenere dalla pigrizia o dal pregiudizio di essere inadeguato.

Vivere il battesimo vuol dire quindi mettersi al servizio degli altri, come ben spiegato da Gesù: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45). 

Ricevere il battesimo e celebrare la messa è principio di tutto, ma non è tutto.

La forma della missione, la grazia della comunione sono provocati dalla realtà in cui la comunità cristiana vive. Il cambiamento d’epoca cambia anche la comunità cristiana e la sua presenza nella storia, perché il territorio non è un fossile, ma un fluido e la vita della gente assomiglia di più a un migrare che a un abitare.

È necessario che i discepoli, condotti dallo Spirito, pratichino con serietà e sapienza il discernimento comunitario, esercitandosi nell’ascolto, nella conversazione spirituale, nell’invocare il giudizio della Parola di Dio e nel propiziare l’opera di chi presiede la comunità per il consenso e la decisione sulla strada da percorrere.

Per tradurre la sinodalità in pratica, possono essere usate espressione come comunione fraterna, stima vicendevole, franchezza nel confronto, sapienza nell’esercizio della autorità e nella elaborazione del consenso.

Parafrasando un proverbio si può dire: “Ascoltare, partecipare, collaborare… sono cose da imparare!”

Tutte le componenti della comunità sono chiamate a entrare nella logica della sinodalità, la Chiesa (cioè NOI) non può parlare da un pulpito distante, ma deve farsi compagna di strada, abitare le fatiche quotidiane, mettersi accanto ai lavoratori, ai giovani, alle famiglie, ai territori. È una pastorale che ci riporta con i piedi per terra, là dove la vita accade. E ci insegna che la fede non è un mondo a parte, ma si intreccia con le scelte concrete, con la giustizia, con la dignità del lavoro, con le fragilità che attraversano le comunità. Proprio in questo contesto si capisce che la sinodalità non è una teoria, ma una pratica. È imparare a lavorare insieme, a non procedere da soli. È dare valore all’ascolto, al confronto, al tempo speso per costruire relazioni vere. 

Nelle nostre comunità non c’è bisogno solo di un’accortezza organizzativa: c’è bisogno di insistere per un cammino virtuoso perché lo Spirito di Dio possa rendere disponibili alla costruzione dell’unità. 

Pertanto, potrebbe essere significativo il richiamo di Paolo (ai Romani): «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. […] Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all’insegnamento; chi esorta si dedichi all’esortazione. […] La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità. Non stimatevi sapienti da voi stessi».

Così lo spirito di servizio si manifesta attraverso la disponibilità, l’empatia, la cura e l’attenzione rivolte agli altri.

Anche per noi, all’inizio di un nuovo anno e delle attività della nostra comunità, può essere appropriato il “Dialogo immaginario tra il padrone della vigna e la gente della piazza” che il Vescovo ha pensato:

Il padrone della vigna: «Che cosa fate qui tutto il giorno senza fare nulla?»

La gente della piazza: «Noi non siamo stati invitati. Quelli della prima ora e della seconda ora occupano tutti i posti, esercitano tutti i ruoli. Siamo quelli chiamati per ultimi quando tutto è già stato deciso e organizzato.»

Il padrone della vigna: «Venite anche voi a lavorare. C’è bisogno di tutti nella vigna del Signore.
Venite però con disponibilità a collaborare con gli altri.

La gente della piazza: «Be’, però c’è bisogno almeno di essere ascoltati. Ci sarebbero molte cose da dire. Le cose, infatti, non vanno bene nella vigna. Ma è difficile convincere quelli che dicono: “Qui si è sempre fatto così”! Sembra che abbiano già deciso tutto. Replicando quello che hanno fatto l’anno scorso. Per coltivare la vigna non basta averla coltivata l’anno scorso. 

Il padrone della vigna: «Venite anche voi a lavorare nella mia vigna. Ho bisogno proprio di gente che porti idee nuove, nuove energie.»

La gente della piazza: «Ma io non posso venire: ho comprato un campo e devo andare a coltivarlo. Ma io non posso venire: ho appena preso moglie. Ma io non posso venire: il direttore dei lavori mi è antipatico. Ma io non posso venire: io non sono competente sui lavori in corso. Se entro nella vigna mi sembra di entrare in un altro mondo. Si usano parole che non capisco. Si fanno dei problemi che non esistono.»

 Il padrone della vigna: «Venite a lavorare nella mia vigna, prendete le vostre responsabilità, invece di stare qui a criticare.»

La gente della piazza: «Se lasciamo le nostre cose per entrare nella vigna, che vantaggi ne avremo?»

Il padrone della vigna: «No, non ci sono vantaggi. Non ci sono premi. È ridicolo pensare che si faccia carriera. Ci sarà solo il dono. Riceverete anche voi un denaro, come quelli della prima ora. Un denaro, quanto basta per entrare nella casa del Signore».

Quindi, “mettersi a servizio degli altri” significa impegnarsi attivamente per aiutare, sostenere e prendersi cura delle persone che ci circondano. Si tratta di un atto di altruismo che porta beneficio non solo a chi riceve il servizio, ma anche a chi lo offre, favorendo un senso di comunità e benessere generale. 

In dettaglio, “mettersi a servizio degli altri” può includere: 

– aiuto concreto e condivisione di risorse, offrire supporto pratico in caso di bisogno 

– sostegno emotivo: ascoltare, confortare e offrire parole di incoraggiamento a chi sta attraversando un momento difficile

– impegno attivo: partecipare a progetti di volontariato, donare il proprio tempo e le proprie energie per il bene della comunità

– atteggiamento di umiltà: riconoscere che ogni individuo può contribuire al benessere altrui, indipendentemente dalle proprie capacità o risorse

Papa Leone XIV, al Giubileo dei giovani ha detto: «La pienezza della nostra esistenza non dipende da ciò che accumuliamo, né da ciò che possediamo. È legata piuttosto a ciò che con gioia sappiamo accogliere e condividere».

Nello stesso evento, Marzia Asnaghi (rappresentante della Diocesi di Milano al Giubileo dei Giovani) ha affermato: «Non basta andare a Messa. La fede vive fuori, nei margini. In chi chiede attenzione quando non hai tempo, in chi ti affida qualcosa anche se non ti conosce. Credere è esporsi, rischiare, lasciarsi coinvolgere».

Papa Francesco ha più volte richiamato questo concetto: la nostra vita è un dono di Dio e deve essere usata al servizio degli altri e il servizio è lo stile di vita cristiano.

E un altro concetto più volte ripetuto da Francesco, davanti ad un uomo in difficoltà, in situazioni di sofferenza psichica o fisica, è espresso dalla domanda «perché a lui e non a me?».

Una domanda che ognuno di noi dovrebbe ripetersi davanti ad un giovane studente in difficoltà, ad un uomo o una donna che manifestano segni di sofferenza, di emarginazione, di disagio, con il peso di fardelli che sembrano difficili da portare, ad un volto segnato dalla povertà, dall’infelicità, dalla solitudine.

Una domanda che non ha una “risposta-spiegazione” (spesso non comprendiamo quello che la vita ci fa vivere), ma deve avere una “risposta-azione”: se io ho più risorse, più tempo, più salute, più qualità di altri, queste “ricchezze” non sono per me, ma per essere distribuite a chi ne ha bisogno, sono da condividere!

Questa è una domanda che scuote, che interroga, che ci invita ad uscire dalla comoda neutralità dell’indifferenza; non è solo un interrogativo, ma un invito a risvegliare la nostra coscienza, a guardare il mondo con occhi meno distratti e più empatici. 

Ancora Papa Francesco ha spiegato che «la fede è il filo d’oro che ci lega al Signore, la pura gioia di stare con Lui, di essere uniti a Lui; è il dono che vale la vita intera, ma che porta frutto se facciamo la nostra parte». «E qual è la nostra parte? Gesù ci fa comprendere che è il servizio. Fede e servizio non si possono separare, anzi sono strettamente collegati, annodati tra di loro. E non siamo chiamati a servire ogni tanto, ma a vivere servendo. Il servizio è allora uno stile di vita, anzi riassume in sé tutto lo stile di vita cristiano».

Il Vangelo di Giovanni narra che prima di morire e risorgere, Gesù ha compiuto un gesto che si è scolpito nella memoria dei discepoli: la lavanda dei piedi. Un gesto inatteso e sconvolgente, al punto che Pietro non voleva accettarlo. 

Soffermiamoci sulle parole finali di Gesù: «Capite quello che ho fatto per voi? […] Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (13, 12.14). In questo modo Gesù indica ai suoi discepoli il servizio come la via da percorrere per vivere la fede in Lui e dare testimonianza del suo amore. Lui, che è il Signore, si fa servo!».

L’amore, quindi, è il servizio concreto che rendiamo gli uni agli altri.

L’amore non sono parole, sono opere e servizio, un servizio umile, fatto anche nel silenzio. 

Vorrei concludere con una preghiera di Madre Teresa di Calcutta (Sii l’espressione della bontà di Dio):

Non permettere mai

che qualcuno venga a te e vada via

senza essere migliore e più contento.

Sii l’espressione della bontà di Dio.

Bontà sul tuo volto

e nei tuoi occhi,

bontà nel tuo sorriso

e nel tuo saluto.

Ai bambini, ai poveri, agli ammalati, a chi è solo

e a tutti coloro che soffrono

nella carne e nello spirito

offri sempre un sorriso gioioso.

Da’ loro non solo le tue cure e le tue premure,

ma anche e soprattutto il tuo cuore.

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